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«È legge universale che non si può fare la nostra felicità
senza fare quella degli altri»
Antonio Genovesi

 

Nell’ultimo decennio, la progressiva globalizzazione dei mercati e l’emergere di Paesi di nuova industrializzazione hanno imposto un ripensamento del modello di sviluppo fino ad allora dominante. Questa riflessione ha coinvolto in primis i Paesi ad economia avanzata che, di fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita delle nuove economie emergenti, basata su beni a basso valore aggiunto, hanno puntato su una progressiva qualificazione delle proprie produzioni. L’accendersi della concorrenza internazionale eleva così il ruolo della qualità ad unico driver che permette di sostenere i livelli di competitività sui mercati. Non si tratta solo di accrescere il contributo di qualità all’interno della produzione di ricchezza ma di sostenerne la sua diffusione lungo tutto il sistema produttivo, al fine di implementare processi di sviluppo che, soprattutto nel lungo periodo, sappiano anche favorire una crescita quantitativa dell’economia. Questa riflessione ha coinvolto in primis i paesi cosiddetti “maturi” che, di fronte ad una concorrenza sempre più agguerrita basata su beni a basso valore aggiunto, hanno puntato su una progressiva qualificazione delle proprie produzioni. Nelle economie avanzate, infatti, l’esigenza non è più tanto quella di aumentare il PIL, ma di elevarne la qualità. Anche l’Italia, ovviamente, si inserisce in questo processo: per il nostro Paese, in realtà, si tratta di rinnovare quella vocazione alla qualità che da sempre è inscritta nel suo DNA. Una vocazione in grado di conciliare modernizzazione e produzione di ricchezza e coesione sociale. Sotto questa spinta, negli ultimi anni, la struttura dell’economia italiana ha subìto una significativa trasformazione: molte imprese incapaci di reggere l’urto della competizione globale sono, purtroppo, scomparse; altre, invece, si sono rafforzate proprio grazie alla produzione di beni ad alto valore aggiunto, intercettando la crescente domanda di beni di alta qualità proveniente, in parte, dagli stessi Paesi emergenti. Leva fondamentale di questo cambiamento è stata l’innovazione di processo e di prodotto, soprattutto in chiave ambientale. Non a caso, infatti, il 23,6% delle imprese industriali e terziarie con almeno un dipendente, tra il 2009 e il 2012, ha investito in tecnologie e prodotti green[1]. Le imprese della green Italy, inoltre, sono quelle che hanno la maggiore propensione all’innovazione: il 37,9% delle aziende che investono in eco-sostenibilità ha introdotto innovazioni di prodotto o di servizio nel 2011, contro il 18,3% di quelle che non investono in tecnologie pulite. Lo stesso dicasi per la propensione all’export: il 37,4% delle imprese green vanta presenze sui mercati esteri, contro il 22,2% di quelle che non investono nell’ambiente. Lo sviluppo di questo processo di qualificazione dipende dalla compresenza di alcune condizioni, come l’esistenza di una domanda di beni ad alto valore aggiunto, la creazione di un sistema di regole e controlli efficaci, la definizione di strumenti in grado di misurare, nel tempo, i progressi fatti. È in questo quadro che si inserisce il PIQ- Prodotto Interno Qualità, l’indagine avviata, nel 2007, da Fondazione Symbola e Unioncamere, con la supervisione scientifica del Prof. Luigi Campiglio. Il PIQ non cerca di quantificare il benessere del Paese, a differenza di altre elaborazioni in corso in Italia e all’estera. Anche se c’è un filo che lega intimamente produzioni di beni e servizi alla qualità del contesto ambientale e sociale. La sua specificità sta nel quantificare il valore aggiunto di qualità del sistema Italia. Più nello specifico, collocandosi all’interno dei conti nazionali, il PIQ ha l’obiettivo di misurare la quota di qualità in termini di valore aggiunto, a prezzi correnti, all’interno del PIL. I soggetti istituzionali che concorrono al valore aggiunto nazionale sono quattro: imprese, Pubblica Amministrazione (PA), famiglie e non profit. In questa fase, il calcolo del PIQ riguarda solo il valore aggiunto generato dalle imprese, ossia la misurazione della qualità della produzione di beni e servizi realizzati dai settori del sistema economico italiano.

Il calcolo del rapporto PIQ/PIL, la cui metodologia del tutto originale dettaglio viene illustrata con dettaglio nel Rapporto, è la sintesi di un riflessione sul concetto di qualità nel nostro sistema economico-produttivo, rispetto alla quale l’aggiornamento 2011 fornisce un risultato pari a 47,9% del valore aggiunto di riferimento, in crescita rispetto al 2010 (47,0%) ma anche rispetto alla rielaborazione del primo dato stimato nel 2007 (45,4%). Nonostante la crisi perdurante, la qualità risulta, quindi, mantenere o addirittura accrescere il suo ruolo, dimostrando che, puntando sugli asset fondamentali di cui il nostro Paese dispone, si può arrivare a crescere anche dentro il PIL e conseguire, in prospettiva, risultati positivi in termini di quantità e benessere. I dati elaborati per la prima volta su scala territoriale evidenziano inoltre un gap tra Centro-Nord e Sud che, tolto l’effetto “perequativo” della presenza di Pubblica Amministrazione e – purtroppo – dell’economia sommersa, tende addirittura ad ampliarsi nel caso del PIQ rispetto al PIL. È la conferma che un vero recupero del Mezzogiorno deve passare per la valorizzazione del capitale umano esistente, per l’innovazione, per la sostenibilità e per il pieno utilizzo delle ricchezze esistenti. Se guardiamo poi alla graduatoria del PIQ pro capite delle regioni, stilata in analogia alla più famosa classifica del PIL, a conferma di quanto detto rispetto al tema dei divari, troviamo un raddoppio della variabilità, ovvero della distanza media degli indici tra regione e regione. Non manca qualche interessante cambiamento nei ranghi, con il Piemonte e la Campania a recuperare posizioni, realtà di cui conoscevamo ampiamente le potenzialità delle risorse umane e produttive. Anche sul fronte internazionale i mercati riconoscono la crescita qualitativa italiana. Analizzando l’andamento dei Valori Medi Unitari come proxy dell’evoluzione qualitativa delle nostre produzioni, si scoprono risultati sorprendenti. Nel giro di soli cinque anni, dal 2007 al 2011, in un periodo connotato da difficoltà di natura straordinaria, le nostre imprese hanno mediamente accresciuto del 10,7% il valore delle esportazioni al netto dei costi di produzione; molto di più di quanto osservato all’interno dei confini comunitari (6,7%) e più di quanto associabile alla Germania e alle altre grandi economie del continente. Nei settori in cui il differenziale di crescita qualitativa con i competitor europei è stato positivo, i livelli di competitività hanno mostrato maggiore tenuta. Laddove l’impegno su tale fronte ha origine da più tempo – si veda il caso dell’alimentare – si evidenziano addirittura miglioramenti assoluti in termini di quote sul totale esportato dai Paesi dell’Unione, a dimostrazione del ruolo fondamentale che la qualità può assumere nel lungo periodo a sostegno della crescita.

Lo studio mostra due volti entrambi noti del nostro Paese, il primo, caratterizzato da valori e risultati davvero competitivi, frutto dell’impegno creativo dei nostri territori; il secondo condizionato dall’illegalità, scarsamente collegato alle tradizioni produttive locali, disattento ai temi ambientali e ai valori sociali.

È questo il senso del progetto PIQ: aiutarci a far emergere l’Italia produttiva migliore, svelando il volto alla base dei tanti successi della nostra storia.

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[1] Dati tratti da Unioncamere – Fondazione Symbola (2012), GreenItaly – L’economia verde sfida la crisi. Rapporto 2012, Roma.

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