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La grave crisi finanziaria in atto ha dato maggior forza al dibattito da tempo aperto per trovare nuovi indicatori da affiancare al PIL, per leggere meglio la situazione attuale e le tendenze in atto. Del resto Luigi Campiglio ricorda nella sua introduzione che furono proprio i radicali cambiamenti seguiti alla crisi economica del 1929 a dare forza al PIL. Marcel Proust sosteneva che un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi. È per guardare con nuovi occhi all’economia che la Fondazione Symbola, in collaborazione con Unioncamere, ha dato vita al PIQ- Prodotto Interno Qualità. Un cantiere di ricerca avviato nel 2007 che ha come obiettivo quello di misurare il posizionamento di un Paese o di un settore di attività rispetto al parametro della qualità.
Oggi sia il mondo della politica che quello dell’economia sono chiamati a ripensare la questione del rapporto tra quantità e qualità dello sviluppo. Il PIQ si colloca quindi con un proprio carattere distintivo, nel dibattito cinquantennale sul Post PIL, che ha nello straordinario discorso di Bob Kennedy all’Università del Kansas tenutosi il 18 marzo 1968, riportata nella quarta di copertina, la sua pietra miliare. Per dare risposta a questa domanda, insieme a quelle sul perché il PIL non è riuscito a dare elementi per capire l’ingresso nella prima crisi del terzo millennio, si sono attivati a livello internazionale numerosi cantieri di analisi che hanno prodotto una notevole evoluzione delle conoscenze in campo economico. Dal recente “Rapporto sulla performance economica e il progresso sociale” elaborato da Stiglitz, Sen e Fitoussi, fortemente voluto dal presidente francese Sarkozy al Global Project on Measuring the Progress of Society dell’OCSE, all’Indice di sviluppo umano (HDI) dell’ONU, fino al cantiere di analisi costruito recentemente in sede UE. Rispetto a una prima fase di critica tout court al pi famoso e longevo sistema di contabilità economica del mondo sembra oggi essere condivisa l’idea che il PIL serve certamente, ma non basta pi da solo a restituirci una immagine complessiva sulle performance di una economia o di una società. In realtà il PIL è una misura della produzione, anche se spesso in maniera distorta è stato utilizzato come misura diretta del progresso sociale e del benessere. Ma, come è stato dimostrato, queste grandezze sono distinte. Per questo il percorso da seguire non è tanto quello di sostituire il PIL con un nuovo indicatore, ma da un lato, accompagnarlo a letture complementari e a set di indicatori che colgono aspetti che il PIL per sua natura non pu cogliere come per esempio l’ambiente e la società, dall’altro, approfondirne le caratteristiche, distinguendo “tra PIL e PIL”, facendo emergere le informazioni presenti ma non esplicitate. Abbiamo cercato insomma di ispirarci all’intuizione di Michelangelo il quale sosteneva che il suo compito era togliere il superfluo dal blocco di marmo per liberare la statua che ne era imprigionata.
In questo dibattito abbiamo avviato la presente ricerca, il cui compito è quello di identificare un indicatore che affianchi il PIL, il Prodotto Interno Qualità, appunto in grado di misurare il livello di qualità della produzione nazionale. Un cantiere e un laboratorio di pensiero, per la ricchezza di contributi e competenze che lo animano, guidato da Luigi Campiglio, Prorettore dell’Università Cattolica di Milano, con il coordinamento tecnico Livio Barnab e che vede la partecipazione di esponenti del mondo scientifico, il supporto dell’ Istituto Guglielmo Tagliacarne, oltre 150 esperti di settore, ma anche rappresentanti delle principali associazioni di categoria da Confindustria, Coldiretti, CNA, Confartigianato, Confcommercio, proprio per calare direttamente lo strumento nella concretezza. Il PIQ, che di seguito presentiamo, rappresenta oggi il 46,3% del valore aggiunto emerso, con una crescita sensibile rispetto al 2007 quando, con una metodologia meno raffinata, avevamo tentato una prima stima di questa grandezza. Il metodo attuale permette di individuare un’ampia area di non qualità o di qualità insufficiente (ancora pari al 53,7%).
Dalla analisi emergono i settori industriali di punta, dove elevata è la presenza di qualità, come la chimica, la metalmeccanica, l’elettronica e i mezzi di trasporto, ma si segnalano positivamente anche attività “tradizionali” come il commercio e l’agricoltura.
I settori del made in Italy si collocano invece intorno alla media, evidenziando per accentuazioni delle dimensioni qualitative relative allo sviluppo del prodotto/servizio (informatizzazione, sostenibilità ambientale, sicurezza sul lavoro) e, in particolare per il tessile e abbigliamento, come fortemente segnalato dagli operatori, riguardo al presidio delle reti e delle relazioni nazionali ed internazionali, ma ancora grandi sono i potenziali di crescita di questi settori.
Va inoltre sottolineato un aspetto relativo alla nostra economia che ha effetti significativi sul metodo di analisi e di calcolo. Il PIQ, come quota del PIL che risponde a criteri di qualità (e, perci, di competitività) esclude dal perimetro della propria misurazione quella parte del PIL che deriva da fenomeni quali il lavoro sommerso o l’evasione/elusione fiscale. In questa scelta c’è, evidentemente, anche un punto di vista etico, ma soprattutto una considerazione di politica economica. Nell’economia sommersa e nell’evasione/elusione fiscale c’è senza dubbio l’ombra dell’economia illegale, ma c’è, soprattutto, la fascia di economia grigia che viene generata dalle modificazioni del posizionamento dell’economia italiana nei mercati mondiali: imprese che la competizione mette a margine (per la natura dei loro prodotti o per mancanza di adeguati cicli di investimenti) tendono a resistere oltre i limiti e limano i costi con mezzi che, spesso fatalmente, deviano verso l’elusione delle norme. Il tema di fondo non è quello di come aiutare queste imprese a sopravvivere (mentre rimane quello della responsabilità verso le persone coinvolte nelle crisi), ma quello di renderle moderne e competitive.
In altri termini, la fascia di grigio è anche il risultato di una eccessiva “leggerezza” della politica industriale, il cui compito è quello di cogliere le transizioni e di accompagnarle ed accelerare i cicli di innovazione e di investimento.
Il PIQ inoltre fornisce l’occasione per rileggere quello che per anni le statistiche internazionali non hanno saputo cogliere, una trasformazione del nostro sistema produttivo nel segno della qualità tutt’oggi ancora sottovalutata, interpretandola come un lento e inesorabile declino. Ma la bassa crescita del PIL italiano negli anni passati è stata dovuta soprattutto al ritardo in settori importati come l’investimento in ricerca o l’efficienza della burocrazia, al peso dell’economia in nero e illegale, al ritardo crescente del SUD, alla debolezza del mercato interno frutto dell’accresciuta diseguaglianza nel reddito. Mentre diverso è il discorso sulla competitività internazionale delle nostre imprese.
Nel 2005 sulla copertina del britannico Economist la nostra penisola fu raffigurata sorretta da due piccole stampelle, mentre in un’altra dell’americano Time campeggiava un braccio di ferro tra un guerriero dell’armata di terracotta, uno dei diecimila che vegliano la tomba del primo imperatore Qin, e il David di Michelangelo quale allegoria di un’economia italiana condannata a soccombere nei confronti della invadente concorrenza cinese su mercati e produzioni da essa tradizionalmente presidiati. Nel gennaio 2006 il capo della ricerca della Goldman Sachs, Jim O’Neill, in una conferenza stampa al Forum di Davos, liquid l’Italia sostenendo che le rimaneva solo “il cibo e un po’ di calcio”. Peccato che da allora, prima della crisi in corso, le nostre esportazioni sono cresciute di oltre il 40% anche nei settori pi tradizionali e che nel 2008 l’Italia abbia raggiunto la sua pi alta quota di mercato nell’export complessivo di manufatti dei Paesi del G-6. L’indice di competitività elaborato da Onu e Wto, che si chiama Trade Performance Index (TPI), colloca il nostro Paese al secondo posto, dietro la Germania, nella classifica dei dieci paesi pi competitivi nel commercio mondiale. Primo nel tessile, nell’abbigliamento e nel cuoio, pelletteria e calzature. Abbiamo perso quantità importanti di produzioni, attaccate dalla competizione dei paesi di nuova industrializzazione, di contro altre produzioni sono emerse proprio perché questi paesi che attaccavano il nostro mercato al tempo stesso mettevano in moto un meccanismo, un allargamento di domanda per prodotti di qualità pi elevata. Sicuramente è stato un processo doloroso, perché ha comportato la scomparsa di imprese e lavoro. Col senno del poi dobbiamo dire che questo processo ha condotto l’industria italiana a fare un salto di qualità ponendosi verso segmenti pi elevati di valore aggiunto. Questo processo ha portato per esempio a dimezzare le paia di scarpe esportate, con un aumentato del fatturato complessivo del settore. Produrre il 40% in meno del vino rispetto alla metà degli anni ‘80, con un valore dell’export quadruplicato, pari a 3,5 miliardi di euro. E’ un’Italia che ha un grande bisogno di essere messa in rete, raccontata, rappresentata per quello che è, di riconoscersi in un progetto comune, quello della qualità, per essere pi forte.


Presidente Comitato scientifico PIQ
Luigi Campiglio – Prorettore dell’Università Cattolica di Milano

Responsabile Comitato tecnico
Livio Barnab – Nexen Business Consultants

Comitato Scientifico
Gianluigi Angelantoni – Presidente Gruppo Angelantoni e Vice presidente Kyoto Club, Mariano Bella – Direttore Ufficio studi Confcommercio, Innocenzo Cipolletta – Presidente Ferrovie dello Stato, Fulvio D’Alvia – Responsabile Sviluppo dei Settori produttivi Confindustria, Domenico De Masi – Ordinario di Sociologia del Lavoro Università La Sapienza di Roma, Gaetano Fausto Esposito – Segretario generale Assocamere Estero, Eric Ezechieli – Presidente The Natural Step Foundation Italia, Marco Fortis – Vicepresidente Fondazione Edison, Marco Frey – Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Claudio Gagliardi – Segretario generale Unioncamere, Claudio Giovine – Responsabile Dipartimento Politiche Industriali CNA, Giovanni Mattana – Vicepresidente AICQ, Daniela Ostidich – CEO Marketing & Trade, Nando Pagnoncelli – Amministratore delegato IPSOS, Paolo Palombelli – Membro Commissione economica e contabilità ambientale, Consiglio nazionale Ordine commercialisti, Bruno Panieri – Direttore Politiche Economiche Confartigianato, Franco Pasquali – Coordinatore Reti in Opera, Alberto Piantoni – Amministratore delegato R-Evolution Gruppo Sistemi 2000, Sabina Ratti – Responsabile Sostenibilità ENI, Fabio Renzi – Segretario generale Fondazione Symbola, Alessandro Rinaldi – Responsabile Area Studi e Ricerche Istituto Tagliacarne, Domenico Siniscalco – Country Head per l’Italia di Morgan Stanley, Giuseppe Tripoli – Capo Dipartimento per l’Impresa e l’Internazionalizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico, Simone Verde – Esperto in comunicazione e formazione politica, Giorgio Vittadini – Presidente Fondazione per la Sussidiarietà, Stefano Zamagni – Professore Ordinario di Economia Politica Università di Bologna.

Gruppo di Lavoro
Domenico Sturabotti – Direttore Fondazione Symbola, Alessandro Rinaldi – Responsabile Area Studi e Ricerche Istituto Tagliacarne, Fabio Lenzi – Iris idee e reti per l’impresa sociale, Domenico Mauriello – Centro Studi Unioncamere, Marzia Kichelmacher- Nexen Business Consultants, Marco Pini – Ricercatore Istituto Tagliacarne, Simone Clementi – Nexen Business Consultants, Alessandro Paciello – Presidente Aida Partners.

Collaboratori: Sara Consolato – Ricercatore Fondazione Symbola, Stefania Fenu – Nexen Business Consultants, Rosa Longo – Nexen Business Consultants, Andrea Mirabello – Nexen Business Consultants, Fabiana Sinopoli – Collaboratore Istituto Tagliacarne, Romina Surace – Ricercatore Fondazione Symbola.

Progetto grafico
Viviana Forcella – Ufficio Eventi Symbola

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