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Sarà la politica economica dell’Adda passà ‘a nuttata, per dirla con De Filippo, a tirarci fuori dalla crisi? Dopo anni difficili, dopo otto trimestri di recessione, si intravedono i primi timidi segnali di ripresa: per coglierla basterà restare fermi ad aspettare? Saranno sufficienti le misure per tenere i conti sotto controllo o la limatura al cuneo fiscale? Oppure serve una manovra non solo economica, ma di posizionamento strategico: scegliere un futuro per l’Italia, indicare al Paese qual è la sua missione, il suo posto nel mondo? L’Italia saprà voltare pagina se sarà in grado di affrontare i suoi mali antichi, che vanno ben oltre il debito pubblico e che proprio la crisi ha reso ancora più opprimenti: le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia spesso persecutoria e inefficace. Se saprà rilanciare il mercato interno, stremato dalla recessione e dall’austerità, e fare tesoro della crisi per cogliere le sfide, e le opportunità, della nuova economia mondiale. L’Italia deve scommettere sull’innovazione, la ricerca, le nuove tecnologie, per rinnovare il suo sapere fare, la vocazione imprenditoriale e artigiana, la creatività e la bellezza di cui è ricca. L’Italia, insomma, deve fare l’Italia. E in questo cammino – non scontato ma alla nostra portata, come dimostra questo rapporto – ha a disposizione uno strumento prezioso: la green economy.

Il Paese, in questo campo – ed è ciò che, da quatto anni, racconta GreenItaly – è già in movimento. Oggi nell’intera economia italiana (sia privata che pubblica) gli occupati “verdi” – i cosiddetti green jobs – sono più di 3 milioni. Accanto a questi possiamo annoverare altre 3 milioni e 700 mila figure ‘attivabili’ dalla green economy: occupati con le carte in regola per lavorare in settori e filiere green. Dal 2008 ad oggi, anche senza contare l’agricoltura, 328mila aziende italiane dell’industria e dei servizi con almeno un dipendente hanno investito, o lo faranno quest’anno, in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale e risparmiare energia: il 22% di tutte le imprese nazionali. Dalle quali quest’anno arriverà il 38% di tutte le assunzioni programmate nell’industria e nei servizi: 216.500 su un totale di 563.400.

Vuol dire che dall’inizio della crisi, nonostante la necessità di stringere i cordoni della borsa, più di un’impresa su cinque ha scommesso sulla green economy. Percepita come una risposta alla crisi stessa, non ha deluso le aspettative. Chi investe green, infatti, è più forte all’estero: il 42% delle imprese manifatturiere che fanno eco-investimenti esporta i propri prodotti, contro il 25,4% di quelle che non lo fanno. Perché oggi green economy significa innovazione: il 30,4% delle imprese del manifatturiero che investono in eco-efficienza ha effettuato innovazioni di prodotto o di servizi, contro il 16,8% delle imprese non investitrici. E significa redditività: il 21,1% delle imprese manifatturiere eco-investitrici ha visto crescere il proprio fatturato nel 2012, tra le non investitrici è successo solo nel 15,2% dei casi.

Ma la green economy è anche la risposta migliore a una nuova e crescente domanda globale di valori e di equità. Stiamo scoprendo una nuova sobrietà, indotta dalla debolezza dell’economia, certamente, ma anche dalla consapevolezza sempre più diffusa che stili di vita – e sistemi economici – costruiti sul consumo senza limiti, sul debito e sulla finanza senza regole non possono durare a lungo. Non producono giustizia. E sono meno appaganti. Si riduce lo spazio per i prodotti senz’anima, avanzano quelli con la coscienza pulita e una storia da raccontare. Il consumo diventa consapevole, partecipato più che subito. Anche grazie agli strumenti stupefacenti offerti dal web e dall’Ict, l’economia della condivisione sottrae spazio a quella della proprietà. Nella dimensione globale, il locale non solo non arretra, ma si rafforza. Ne è una dimostrazione il balzo in avanti della spesa a chilometro zero, che ha raggiunto il fatturato record di 3 miliardi di euro, con 7 milioni di italiani che fanno regolarmente acquisti nei mercati degli agricoltori: perché costa meno, e perché con la spesa si portano a casa la qualità e il rapporto tangibile col territorio. Niente a che vedere con la decrescita, anzi: non è la rinuncia a produrre e consumare, ma è la scelta di farlo nel rispetto dell’ambiente: riducendo non il benessere ma il consumo di energie, materie prime, territorio. Lo vediamo, ad esempio, nell’espansione del mercato delle materie prime seconde, che negli ultimi 10 anni ha visto l’Italia, paese nettamente importatore, cambiare pelle e rafforzare l’export. La green economy è la ricetta per un avvenire più giusto e desiderabile: dalla generazione diffusa (fino all’autoproduzione) di energia pulita, alle aree industriali inquinate che vengono riconvertite grazie alla chimica verde; dalla salute sui luoghi di lavoro all’inclusione dei giovani (il 42% del totale delle assunzioni under 30 programmate quest’anno verrà fatto proprio da quel 22% di aziende che fanno investimenti green). Dalla qualità della vita nelle città alle abitazioni, che ristrutturate con attenzione all’eco-efficienza diventano anche più confortevoli e ci fanno risparmiare (come sa bene quel milione e quattrocentomila famiglie che ha approfittato della misura anticiclica di gran lunga più importante attivata in questi anni, l’ecobonus per le ristrutturazioni, appunto).

E’ un modello economico che premia chi investe su conoscenze, nuove tecnologie, capitale umano, innovazione (il 61,2% di tutte le assunzioni previste nel 2013 e destinate alle attività di ricerca e sviluppo delle nostre aziende sarà coperto da green jobs) rispetto a chi compete sul costo del lavoro e sui diritti (vorrà dire qualcosa se tra le assunzioni non stagionali, è a tempo indeterminato il 52% di quelle di green jobs, contro il 40% delle figure non connesse al settore green).
Un paradigma produttivo che sembra cucito su misura per un paese come il nostro, a corto di tutte le materie tranne che di creatività, intelligenza e bellezza. E se leggiamo con attenzione la green economy raccontata in questo volume, scopriamo che è una filigrana che percorre trasversalmente tutta l’economia nazionale, e che vista in controluce restituisce il ritratto più fedele del nuovo made in Italy. Scorrendo l’elenco dei settori che investono green con più convinzione, troviamo proprio quelli trainanti del made in Italy, quelli più tradizionali e quelli di più recente acquisizione: il comparto alimentare (27,7% contro una media del complesso dell’industria e dei servizi del 22%), il legno-mobile (30,6%), il settore della fabbricazione delle macchine ed attrezzature e mezzi di trasporto (30,2%), e poi tessile, abbigliamento, calzature e pelli (23%).

Abbiamo di fronte un ritratto che sconfessa certi luoghi comuni sull’Italia, certe letture miopi che ci dipingono – da ultimo lo ha fatto la Commissione Europea – come un paese smarrito, a corto di fiato e di competitività, all’inseguimento delle economie emergenti. Voci prive del sostegno dei fatti, ma dannose. GreenItaly, invece, racconta un’Italia meno scontata, più con gli occhi dell’esploratore, per citare il Piccolo principe di Saint-Exupéry, che del geografo. Perché una delle cause della diffusione della tesi, infondata, del declino italiano, sta nella difficoltà degli indicatori economici tradizionali a cogliere i mutamenti in atto nel nostro Paese. Mark Twain diceva che “le bugie si dividono in tre grandi gruppi: le piccole, le grandi e le statistiche”. Non ha senso oggi continuare a leggere le nostre performance con le dinamiche delle quote di mercato nell’export mondiale, e puntare il dito contro la perdita di posizioni degli ultimi 10 anni, come se nel frattempo l’economia globale non fosse stata terremotata dall’ingresso in campo di colossi come la Cina, l’India, il Brasile. Se invece guardiamo il saldo commerciale, allora ci accorgiamo che nel 2012 siamo stati tra i soli cinque paesi al mondo (con Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud) ad avere un saldo con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari (per i manufatti non alimentari). Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale) nel 2011 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 946 casi. Tra ottobre 2008 e giugno 2012 – mentre sul mercato domestico domanda e produzione crollavano per la crisi e l’austerità – il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese: è il nostro spread positivo. Se puntiamo la lente sui paesi extra Ue – i mercati più promettenti, quelli su cui si deciderà il futuro del commercio mondiale – questa Italia ‘in declino’ è il secondo paese dell’UE, dopo la Germania, per surplus commerciale nei manufatti non alimentari (con un attivo di 63 miliardi di euro nel 2012). Ci accorgiamo che l’Italia non è una delle vittime della globalizzazione, anzi: ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola e ‘sincronizzandola’ con le nuove richieste dei mercati. Proprio grazie alla green economy abbiamo saputo costruire valore aggiunto in settori – quelli tradizionali del made in Italy: il tessile-abbigliamento, le calzature, i mobili – in cui ci davano per spacciati a causa della concorrenza dei paesi emergenti. E abbiamo creato nuove specializzazioni, come nella meccanica – oggi di gran lunga il settore più importante per surplus commerciale con l’estero – nei prodotti innovativi per l’edilizia, nei mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli, nella nautica e nella chimica-farmaceutica. Oggi la Cina, la fabbrica del mondo, produce con macchinari italiani. Perché sono più flessibili e più efficienti nei consumi: le imprese tessili locali, ad esempio, per centrare gli obiettivi imposti dal 12° piano quinquennale in tema di risparmio energetico e riduzione delle emissioni ambientali non hanno altra scelta che acquistare made in Italy. E così proprio la Cina, che avrebbe dovuto fagocitarci, è il primo mercato estero del meccano-tessile tricolore. Tra il 2008 e il 2010, il valore medio unitario delle emissioni di CO2 dell’economia italiana si è ridotto del 6,9%, per arrivare a 103,9 tonnellate per milione di euro: meglio di Spagna (110,5), Gran Bretagna (129,7), Germania (143,0). I bambini di Pechino, quelli di Shangai come quelli di Coney Island giocano su giostre italiane: perché siamo i più creativi, le nostre sono le giostre più belle e le più divertenti. E consumano meno energia di tutte le altre. Perché, grazie alla ricerca sui nuovi materiali, arrivano a pesare anche il 40% in meno di quelle tedesche, e a consumare fino ad un decimo delle altre.

“Se fossimo ciò che siamo capaci di fare, rimarremmo letteralmente sbalorditi”, diceva Thomas Alva Edison. E quello che facciamo lo facciamo anche perché abbiamo scelto, magari senza chiamarla così, la green economy. Che si sta dimostrando l’infrastruttura immateriale che dà forza al nuovo made in Italy. Che dà nuova energia alle tradizioni produttive antiche, valore al capitale umano e ai territori, che per vocazione sposa bellezza, efficienza, ricerca e produzioni sartoriali. Innestandosi su quella che Carlo M. Cipolla ha definito la capacità di “produrre all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo”: qui in Italia la green economy incontra la frontiera della qualità. E’ qui, nel distretto del mobile di Livenza, che le cucine più sostenibili – progettate e realizzate sottraendo energia e materiali, con un occhio a quando verranno dismesse: i materiali sono separabili, riusabili e riciclabili – sono anche le più belle e le più innovative: e per questo trovano clienti in tutto il mondo. E’ qui, nel distretto di Sassuolo, che si dettano le tendenze globali nel mondo delle piastrelle, da quelle antibatteriche a quelle fotovoltaiche a quelle sottilissime di 3 millimetri: perché il settore investe circa il 10% del fatturato annuo in misure green, e dal 1980 ha dimezzato i consumi energetici pur avendo raddoppiato la produzione. E’ qui che vengono progettati i lampioni solari a led che illuminano le piazze disegnate dai più grandi architetti. Che le lampade che hanno fatto la storia del design trovano nuova vita grazie alle bioplastiche prodotte con gli scarti di lavorazione dell’industria alimentare. Sono italiane le esperienze più avanzate nel campo della chimica verde e dei biocombustibili: realizzati partendo da coltivazioni dedicate in aree marginali o dai materiali di scarto di quell’agricoltura cui dobbiamo oltre 4mila specialità tradizionali regionali, 255 Dop, Igp, Stg, e che, con quasi 50mila operatori e 1,2 milioni di ettari, è uno dei leader mondiali del biologico. Quella stessa agricoltura che ha il primato europeo per il valore aggiunto per ettaro (il triplo di quello del Regno Unito, il doppio della Spagna, quasi il doppio della Francia, 1 volta e mezza quello tedesco), vanta il minor numero di prodotti con residui chimici oltre il limite (0,3%, inferiore di 5 volte a quelli della media europea) e in cui quasi la metà (49,1%) delle imprese ha adottato negli ultimi tre anni (2010-2012) metodi e tecnologie per la riduzione dei consumi di energia ed acqua. E’ qui in Italia che la ricerca sulle fibre tessili riciclate, tinte magari utilizzando colori naturali non inquinanti e a km zero, sposa la moda e diventa tendenza.

Tanta virtù non deve certo farci dimenticare gli annosi problemi del Paese. Né dobbiamo dimenticare che se vogliamo che l’Italia del futuro assomigli a questa Italia che stiamo raccontando, se vogliamo che questa nuova economia diventi pervasiva contagiando tutto il sistema, dobbiamo sostenerla. Quantomeno liberarla degli ostacoli che incontra lungo il cammino. Con una politica industriale che faccia perno sulla valorizzazione dei nostri pilastri – manifattura, turismo, cultura, agricoltura – e indichi proprio nella sostenibilità la via da seguire. E con una politica fiscale che stia dalla parte della green economy: che sposti la tassazione dal lavoro verso il consumo di risorse, la produzione di rifiuti, l’inquinamento. Che incentivi la ricerca, l’ICT e l’innovazione, la formazione, l’inclusione sociale e il contributo dei giovani e delle donne alla società e all’economia italiane. Che sostenga il credito e gli investimenti per competere nell’economia reale a scapito di quelli per fare speculazione sui mercati finanziari.

Le pagine che seguono sono una rassegna, parziale ma significativa, del mondo dei nostri campioni nazionali. E’ l’Italia che ce la fa perché, come abbiamo detto, continua a fare l’Italia. E non è un caso se a questo mondo sta guardando anche Google, candidandosi a svolgere un ruolo di catalizzatore per il made in Italy. A questo tracciante verde dell’Italia migliore deve guardare con più curiosità e attenzione anche la politica quando ragiona di sviluppo e rilancio. E non può non farlo Expo 2015: che, partendo dalle fila dell’agroalimentare e dipanandole lungo la filiera e i territori, rappresenterà una straordinaria occasione di rilancio del complesso del sistema paese, che in questa green economy ha la sua avanguardia. Da questi successi, da queste storie e da queste energie dobbiamo ripartire per recuperare coraggio e fiducia. Per nutrire, con i talenti del presente, il nostro futuro.

Ferruccio Dardanello
Presidente Unioncamere

Ermete Realacci
Presidente Fondazione Symbola

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