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Passare dall’esperienza del Louvre Abu Dhabi alla direzione di un museo autonomo italiano non è un salto qualsiasi, a cominciare dalla disponibilità di fondi e di risorse umane per poter condurre a buon fine la propria missione. Non è neppure banale, il passaggio dall’amministrazione francese a quella italiana, la prima dotata di certezze matematiche, la seconda di continui salti algebrici. Tuttavia è proprio il modello d’oltralpe quello giustamente scelto nel nostro Paese, seppure con i dovuti adattamenti, e che va nel senso di un sacrosanto “sistema nazionale dei musei”. Il confronto tra le due realtà, dunque, per lo meno a riforma Franceschini avvenuta, è particolarmente utile poiché permette di intravvedere potenzialità non del tutto espresse, problemi rimasti inevasi o opportunità pienamente colte.

Che fosse necessario un principio federatore delle varie realtà culturali del nostro Paese è un’ovvietà troppo spesso contraddetta. Il caos dei finanziamenti, infatti, la tendenza localistica con la conseguente vernacolarizzazione del dibattito intellettuale, lo sprofondamento dell’Italia in un provincialismo senza ritorno sono la cronaca dei nostri giorni e chi ha potuto lavorare all’estero ha consapevolezza quanto questi elementi abbiano implicato una vera e propria eclissi nazionale su scala globale. Mentre il Louvre, il British Museum, la Smithsonian Institution o il Centre Pompidou (solo per citarne alcuni) sono attivi su tutti e cinque i continenti, in partnership che sostengono la diplomazia dei loro rispettivi Paesi, nessuna istituzione italiana potrebbe neanche immaginare di avventurarsi in redditizie collaborazioni del genere. Assolutamente un’ottima idea è, dunque, quella di una messa a sistema centralistica delle realtà museali italiane, per fare rete, per condividere le collezioni, per essere maggiormente presenti nel mondo. Scelta prefigurata dall’abolizione dei direttori regionali, giustamente sostituiti da segretari con compiti di coordinamento, per evitare a un altro livello ancora, la frammentazione.

Proprio per questo, dopo un anno di esperienza alla testa di un museo autonomo, preme sottolineare l’importanza di un’accelerazione. Troppo fragili restano, per cominciare, le competenze specialistiche, e troppo vari i dislivelli culturali e professionali dei nuovi assunti, fatto che richiede una riflessione su una scuola centrale di formazione. Si tratta di un tema decisivo, nel momento in cui si presenta l’esigenza di una riconoscibilità pubblica del servizio garantito dai musei ai cittadini. La necessità ormai chiara a tutti di una loro specificità nel panorama delle istituzioni pubbliche, comporta anche un uguale standard scientifico e deontologico che sono ormai priorità nota al Ministero ma che necessitano di essere codificati in curricola formativi chiari e riconoscibili. Quanto le università, anche i musei dovrebbero potersi distinguere per un comune e immediatamente individuabile livello intellettuale, apprezzabile già sul piano della mediazione culturale, che soltanto un polo unitario di formazione e ricerca potrebbe garantire.

Un altro elemento che rimane inevaso nella virtuosa prospettiva di un sistema nazionale dei musei, è quello di una centralizzazione ancora maggiore dei servizi e degli introiti commerciali derivanti dallo sfruttamento dei diritti d’autore. Non è necessario guardare pedissequamente al modello della Rmn francese (Réunion des musées nationaux), ma il potenziale dei musei italiani in questo campo rimane del tutto inespresso. Non soltanto la commercializzazione delle immagini risulta molto meno efficace che se fosse centralizzata, ma anche la produzione di pubblicazioni si trova a essere penalizzata o ritardata dall’assenza di un attore con capacità e mezzi. Un esempio molto semplice è quello relativo al Complesso monumentale della Pilotta, dove al momento si soffre la mancanza di guide e dispostivi degni di mediazione. L’estensione delle prerogative di Ales potrebbe facilitare lo sviluppo di questi supporti alla visita, riconducendo al pubblico – sebbene nella forma di un’impresa di diritto privato – risorse importanti che rischiano di disperdersi in iniziative di qualità insufficiente. Ugualmente, una coordinazione a livello centrale nella gestione dei bookshop e nell’organizzazione delle mostre dei musei autonomi, potrebbe permettere una messa a sistema del patrimonio esistente, con iniziative focalizzate sulla promozione delle collezioni nazionali su scala internazionale, migliorando il posizionamento dell’Italia in un mercato in cui ad oggi il nostro Paese importa moltissimo ed esporta quasi nulla.

Infine, un ultimo tema decisivo riguarda la ridistribuzione delle collezioni. Sono troppo numerosi i musei ereditati dalla storia con dotazioni sconnesse, poiché frutto del caso o di progetti abortiti. Soltanto a Roma si potrebbe citare il Museo di Palazzo Venezia (rimasto a metà), il museo del Rinascimento voluto da Fedrico Hermanin e mai portato a termine, o il museo Pigorini, ancora erede di logiche positiviste, a metà tra collezioni preistoriche ed etnografiche, oggi annesse a quelle dell’Alto Medioevo. Ma si possono citare anche i palinsesti incompiuti, laddove una pianificazione maggiore permetterebbe di avere una ripartizione più sensata a uso delle università e degli studiosi. Non si tratta di una idea peregrina se si pensa che numerosi accorpamenti che oggi sembrano tramandati dalla notte dei tempi sono il prodotto di trasferimenti degli anni Trenta e se, guardando ad altri Paesi occidentali ed europei, una relativa mobilitazione delle opere – nei limiti permessi dalla storia del collezionismo – consente di rinnovare scientificamente i musei, adeguando discorso scientifico e prove documentarie.

Tre punti, questi, che non cancellano certo le priorità assolute della sopravvivenza – fondi e concorsi – e che sembrerebbero dunque fondamentali per dare pienamente sostanza al modello virtuosamente scelto di un sistema nazionale dei musei.

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