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L’obiettivo del report di quest’anno è quello di interpretare alcuni segnali che sembrano evidenziare una lenta – molto lenta –ripresa e una più veloce maturazione dell’industria edilizia in Italia, nell’ottica di una non più prorogabile inversione della gerarchia tradizionale tra costruzione del nuovo e riqualificazione dell’esistente. Vale quindi la pena analizzare i segnali più rilevanti e valutarne le prime possibili conseguenze.

 

Primo segnale: il contesto internazionale. Il 12 maggio scorso in una conferenza stampa congiunta a Bruxelles la Comunità Europea e la Fondazione Mies van der Rohe di Barcellona hanno annunciato il progetto vincitore del Mies Award 2017, vale a dire il DeFlat Kleiburg, realizzato ad Amsterdam dagli studi NL architects e XVW architectuur per un cliente privato. DeFlat propone una ristrutturazione in chiave Recyle di uno dei più grandi complessi di appartamenti dei Paesi Bassi. In pratica si tratta di un unico corpo edilizio residenziale da 500 unità situato nell’area di Bijlmermeer. Il consorzio DeFlat ha salvato l'edificio dalla demolizione trasformandolo in un "Klusflat", ossia in un complesso in cui sono gli stessi proprietari a rinnovare i propri alloggi, in accordo con l’impresa e sotto la supervisione dei progettisti. Il premio Mies ha sede a Barcellona, quindi non è un fenomeno italiano, ma ha l’appoggio (e molti fondi) della UE, e quindi anche nostri, e una vasta partecipazione di architetti europei, italiani inclusi. Inoltre la notizia rappresenta anche il segnale di una inversione di tendenza eclatante – proprio quella di cui parlavamo all’inizio – visto che ci dice che un’istituzione che negli anni scorsi ha sempre premiato opere nuove e spettacolari e progettisti superstar in questa edizione ha scelto di premiare un lavoro di riqualificazione dell’esistente, poco appariscente, socialmente rilevante, svolto con una grande attenzione ai valori sociali e ambientali. Questo è per noi un segnale molto importante rispetto al nostro punto di partenza, perché evidenzia il coinvolgimento della cultura architettonica in un fenomeno che all’inizio poteva sembrare una questione puramente economico-occupazionale.

Secondo segnale: la riqualificazione diffusa. A dire il vero in Italia è dalla metà degli ani ottanta – tutti ricordano un famoso dialogo tra Bernardo Secchi e Vittorio Gregotti su “Casabella” – che si parla della centralità della riqualificazione nel tessuto costruito nazionale. Solo che per anni l’affermazione è stata soprattutto una presa di posizione teorica, poco seguita dal mercato edilizio e dall’entusiasmo “cementificatore” che caratterizzava ancora l’industria delle costruzioni al tempo. Poi, progressivamente, la riqualificazione è stata resa più urgente dalla trasformazione del tessuto industriale: comparti enormi di archeologia industriale cui assegnare un destino, aree ferroviarie, insediamenti “produttivi”, complessi militari non più utilizzati da reinserire in qualche modo nella vita delle città. Da cui megaprogetti e grandi concorsi, che a volte hanno funzionato – il MAXXI in fondo è figlio di questo processo – ma in molte altre occasioni non hanno fatto seguire un grande cantiere alle trionfanti affermazioni dei sindaci al momento felice della premiazione e della massima attenzione dei media. Se invece oggi guardiamo i dati diffusi dal CRESME e dalla stessa Symbola sull’incremento di valore degli immobili “ristrutturati”[2], e li incrociamo con le notizie che ci riportano i “cronisti di architettura” più attenti scopriamo un paesaggio un po’ diverso. Soprattutto scorrendo gli articoli di Paola Pierotti sui supplementi del Sole24Ore[3]   troviamo best practices già molto interessanti. A Prato un bravo sindaco e l’architetto Marco Mattei hanno trasformato un vecchio opificio nello splendido Museo del Tessuto. A La Spezia l’impegno dell’amministrazione e i 5+1AA hanno trasformato un vecchio deposito di tram in una biblioteca felicemente lontana dal centro. Gli ex magazzini del sale di Cervia sono diventati un luogo per il leisure e la cultura a cura dell’architetto Fabrizio Fontana (Archlabo). A Treviso è lo IUAV ad essere direttamente impegnato nel riciclo di una caserma. Insomma, c’è in verità un trend lievemente positivo nell’industria delle costruzioni, ma sono soprattutto due aspetti ad attirare molto la nostra attenzione. La prima è che gran parte dell’attività è finalmente di riqualificazione (ristrutturazione, riciclo, rigenerazione…) dell’esistente; la seconda è che il motore non sono tanto i grand travaux dell’epoca della prima grande dismissione dei complessi industriali e militari (tipo Ansaldo, Innocenti o Pirelli a Milano, o le caserme di via Guido Reni a Roma, per capirci) quanto un processo di rinnovo diffuso, che molto spesso riguarda anche complessi residenziali tuttora abitati. Ci sono processi di questo genere già in corso a Torino, Milano, Bologna, Napoli, ed è esattamente questo il fenomeno che questo breve report vuole mettere in luce, anche per comprendere i passi da fare per consolidarlo e renderlo armonico e funzionale a uno sviluppo virtuoso del paese.

Terzo segnale: la legge. Apprendiamo con un certo stupore dagli organismi competenti che il consumo di suolo in Italia è ancora molto alto rispetto ai nostri vicini europei. Ci sembra strano. Basta guardarsi intorno quando si viaggia attraverso il nostro territorio: milioni di metri cubi di fabbriche e capannoni dismessi, aree demaniali in disuso, residenziale invenduto, “direzionale” in eccesso eccetera. Come ci viene in mente di continuare a costruire edifici nuovi? Soprattutto di costruirli su aree precedentemente non edificate, o agricole, o magari destinate “alla buonanima dell’”espansione” da piani regolatori tanto ottimisti quanto desueti. Ovviamente le ragioni ci sono e sono di carattere economico, fiscale, politico, a volte di pura semplificazione. Per questo siamo contenti che esista un disegno di legge – già approvato in prima lettura[4]  – sul consumo di suolo che punta ad azzerare il suddetto consumo entro il 2050. A dire il vero il 2050 ci sembra un po’ troppo in là, considerando per esempio quello che stanno già facendo i tedeschi sull’argomento, e ci sembra anche che l’iter sia troppo lungo e ancora poco attrezzato di dispositivi fiscali e amministrativi che incentivino il passaggio a un’idea adeguata di tutela del patrimonio territoriale. Però la legge in qualche modo esiste, è in discussione, che però è troppo poco pubblica e sulla quale non siamo abbastanza informati. Il nodo cruciale ovviamente non è e non sarà nelle affermazioni di principio o nelle dichiarazioni di adesione alla bella ecologia ma nei dispositivi di incentivazione finanziaria e fiscale che lo stato potrà approntare per committenti e imprese che lavorano in questo senso, per contrastare la sensazione – molto spesso ancora realistica – che costruire su un suolo nuovo e possibilmente “vergine” sia più conveniente che trasformare un edificio esistente o demolire e ricostruire meglio.

Quarto segnale: l’accademia. Sei anni fa il MAXXI fece una grande mostra che si chiamava Recycle e che incitava gli architetti non solo a riciclare l’esistente ma a farlo con intensità creativa e spirito moderno e innovativo, e non come puro atto di convenienza ecologica ed esercizio politically correct. Da quella mostra nacque poi una ricerca universitaria inter-ateneo alla quale hanno partecipato 11 atenei e docenti e ricercatori di una decina di discipline. La ricerca è andata avanti per quattro anni e finalmente nel mese di aprile i suoi risultati sono stati presentati di nuovo proprio nel museo dove tutto era cominciato. Rispetto alla tradizionale “autoreferenzialità” delle ricerche universitarie, soprattutto in discipline di natura [anche] artistica, la ricerca Recycle ha manifestato alcuni elementi di novità e di interesse. Le tre pubblicazioni finali riguardano infatti la teoria del riciclo, dove si cerca un dialogo con filosofi e analisti del presente e quindi cercando di comprendere gli aspetti antropologici della questione, l’atlante di un’ampia serie di aree e metodologie possibili nel paesaggio nazionale, e infine – lupus in fabula - un’agenda incentrata su azioni legislative e amministrative possibili. Per una volta insomma sembra che la ricerca accademica, i fenomeni e le esigenze reali del paese possano marciare nella stessa direzione. Sta a chi può agire sul piano delle relazioni inter-istituzionali e della sintesi operativa approfittare di questa congerie positiva. I segnali colti nel rapporto Cresme-Symbola possono produrre qualche ottimismo e indurre a moltiplicare gli sforzi per stabilire connessioni virtuose tra un pensiero innovativo e un approccio nuovo e adeguato al mercato.

Quinto segnale: il trauma. Intorno alle emergenze del terremoto si agitano molti temi che si avvicinano alla nostra discussione. In che modo? Proviamo ad elencarli. Prima di tutto la ricostruzione vera e propria. Siamo sicuri che tutto vada ricostruito? Che non possiamo recuperare nemmeno un metro quadro dall’esistente, che di qualche edificio non ci sia davvero più bisogno, che qualche funzione non si possa accorpare e dislocare in strutture esistenti e “in attesa” di una seconda vita? Poi la questione dei materiali e della durata. Ovviamente intorno al terremoto si muovono anche energie economiche che si propongono e che spesso – a torto o a ragione – si ritengono titolari di approcci più “ecologici”, o più economici, o più funzionali. Potremmo approfittarne e cercare di scuotere la natura monoculturale della nostra industria edilizia, fatta solo di mattoni – da millenni - e di cemento – da un secolo. Legno metallo resine e chi più ne ha più ne metta sono spesso materiali che si integrano benissimo con quelli più “pesanti” e che consentono filosofie di riciclo efficienti ed aperte, soprattutto in casi nei quali si può pensare all’esistenza “a tempo” di una struttura o della funzione che la abita. Infine – punto finale e più importante di questo elenco – il progetto di riqualificazione complessiva del paese. Ho pensato di intitolare questo testo in memoria della vecchia legge Fanfani[5]  perché l’impressione è che si debba attivare un nuovo piano Fanfani, destinato questa volta non a edificare le periferie, ma a riqualificarle a tappeto. E non solo le periferie, ma tutto il patrimonio edilizio nazionale, urbano, rururbano, rurale, montano, in molti casi in urgente attesa di adeguamenti alle necessità sismiche, ecologiche, energetiche e infrastrutturali. Portato avanti con energia – pur se in modo progressivo e proporzionale ai finanziamenti possibili - un piano del genere darebbe un contributo positivo ai luoghi, alle professioni e al tessuto lavorativo. Avvenne in fondo così col vecchio piano del ministro toscano, vituperato per anni dagli urbanisti progressisti per poi rivalutarlo quando lo si poté traslare dalla sfera della polemica politica a quella della storia.  Il combinato disposto di alcuni atti di governo recenti ci consente qualche lieve speranza in questa direzione. Incentivi alla ristrutturazione  dei privati da un lato e Progetto CASA dall’altro sembrano segnali che esista una sensibilità consapevole. Ma l’approccio sembra ancora, soprattutto nel programma guidato da Azzone, troppo dimostrativo e limitato. Deve avere risorse ma anche uno slancio che dia l’idea di un lavoro che comincia in alcuni punti strategici e poi si espande a tappeto nel territorio nazionale. In questo modo i segnali che cogliamo nell’industria edilizia potrebbero connettersi in modo virtuoso con le necessità dei cittadini e con le energie creative di chi si occupa di progetto. Così la cura post-terremoto potrà alla fine dare un contributo non solo negativo alla storia del Paese se lo si affronterà a partire da queste semplici premesse.

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