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Contro la crisi, oltre la crisi. E’ questa oggi la sfida. Intervenire per mitigarne gli impatti sociali ed economici, rassicurare cittadini, operatori e mercati. In maniera pi o meno tempestiva ed efficace è quello che in questi mesi è stato messo in campo con dimensioni finanziarie e strategie diverse, forse anche troppo, da stati nazionali, organismi e autorità internazionali. Operare scelte chiare e lungimiranti che scommettano su un’economia a misura d’uomo, capace di affrontare e di rispondere alle grandi questioni della nostra contemporaneità, a partire da quella ambientale. Assumere responsabilità politiche, economiche, scientifiche e tecnologiche che realizzino un investimento forte sulle frontiere della conoscenza, nei settori pi vitali e creativi, dall’innovazione tecnologica al risparmio energetico, alle fonti rinnovabili. Ad esempio, contrastare il cambiamento climatico del pianeta vuol dire evitare che intere parti della Terra diventino tanto inospitali, come già lo sono quelle dove la povertà non a caso è pi forte, da alimentare ulteriormente conflitti, migrazioni, paure e chiusure. Ma significa anche ridurre l’inquinamento locale e la bolletta energetica per famiglie e imprese, rendere pi competitiva la nostra economia, indicare una direzione per il futuro. In questo contesto, le ragioni della realtà, della sobrietà, per dirla con le parole del cardinale Tettamanzi in un discorso sulla crisi, possono essere viste come una straordinaria occasione per rendere non solo le nostre società pi giuste, ma anche pi avanzati e competitivi i nostri sistemi produttivi. Un esempio eclatante è quello dell’industria automobilistica, il principale driver dell’economia del ventesimo secolo che, davanti ad una crisi epocale del settore, deve ripensarsi e riposizionarsi a partire dagli scenari, dai vincoli ma anche dalle inedite potenzialità della green economy. Come spiegarsi altrimenti quello che fino a qualche anno fa nessuno avrebbe immaginato possibile e cioè l’accordo tra Fiat e Chrysler?
Un matrimonio voluto con forza e insistenza dallo stesso Obama. E’ Jim Press, numero due della casa automobilistica americana, a dichiarare che la Fiat è la prima casa europea nei motori a basso impatto ambientale, che saranno molto utili anche negli Usa, e grazie alla quale Chrysler risparmierà da 3 a 5 anni nello sviluppo di analoghe tecnologie. Ma forse a ben guardare quella della Fiat è una storia meno isolata, seppur speciale per evidenti ragioni, nel panorama industriale e pi in generale economico del nostro Paese. Nel corso di questi anni l’Italia si è rafforzata in molti settori puntando sulla qualità, producendo quella innovazione che fa dire ad autorevoli osservatori che le nostre aziende sono già nel cuore della green economy. Nel 2008 si è registrata la crescita di quelle piccole e medie imprese che affrontano la competizione del mercato globale incrementando la qualità dei prodotti – il 71% contro il 64% della media europea – e che ottengono, in media, il 12% del loro fatturato dall’immissione sul mercato di prodotti e servizi innovativi, meglio di Germania, Spagna e Francia. Siamo oggi leader mondiali negli yacht di lusso come nella meccatronica. Abbiamo dimezzato le paia di scarpe esportate, ma è aumentato il fatturato. Produciamo il 40% in meno del vino rispetto alla metà degli anni 80, ma il valore dell’export è quadruplicato raggiungendo i 3,5 miliardi di euro. Una produzione nel segno della qualità con 316 Doc, 41 Docg, 120 Igt, 12 denominazioni a valenza interregionale e 4.471 prodotti agroalimentari tipici delle regioni italiane. Siamo i primi esportatori di vino nel mondo e pari alla Francia per esportazioni verso gli Stati Uniti. Alle Olimpiadi di Pechino erano bresciani molti dei fucili che hanno vinto medaglie, marchigiane le macchine elettriche, piemontesi le pavimentazioni degli impianti sportivi, lombarde le piscine, toscani gli scafi del canottaggio e del CNR la centrale di monitoraggio ambientale, la pi grande al mondo. L’Italia dei distretti industriali, delle 4.300 imprese medio grandi del cosiddetto Quarto Capitalismo, della moltitudine delle piccole, ma anche dei grandi gruppi, delle produzioni agroalimentari di qualità ha molto da insegnare, con i suoi imprenditori, le sue comunità, i suoi saperi e orgogli territoriali, il suo straordinario capitale umano, le sue professionalità e i suoi valori in cui sia la Fondazione Edison sia Symbola, la Fondazione per le Qualità Italiane, si riconoscono. Allora andare contro e oltre la crisi richiede anche un’operazione culturale che accantoni definitivamente tutte quelle letture che in questi anni hanno dipinto l’Italia come la grande malata d’Europa, spesso promosse dalla stampa estera e purtroppo amplificate, con la debolezza culturale che spesso ci contraddistingue, da tutti i media italiani. C’è qui anche un problema di affinamento scientifico nel predisporre strumenti di lettura pi aderenti alla società e alle economie italiane.
Nel 2005 sulla copertina del britannico Economist la nostra penisola fu raffigurata sorretta da due piccole stampelle, mentre in un’altra dell’americano Time campeggiava un braccio di ferro tra un guerriero dell’armata di terracotta, uno dei dodicimila voluti dall’imperatore Ming, e il David di Michelangelo quale allegoria di un’economia italiana condannata a soccombere nei confronti della invadente concorrenza cinese su mercati e produzioni da essa tradizionalmente presidiati. Nel gennaio 2006 il capo della ricerca della Goldman Sachs, Jim O’Neill, in una conferenza stampa al Forum di Davos, liquid» l’Italia sostenendo che le rimaneva solo “il cibo e un po’ di calcio”. Peccato che da allora, prima della crisi in corso, le nostre esportazioni sono cresciute di oltre il 40% anche nei settori pi tradizionali e che nel 2008 l’Italia abbia raggiunto la sua pi alta quota di mercato nell’export complessivo di manufatti dei Paesi del G-6. Per contro, oggi Goldman Sachs, come Morgan Stanley, non è pi banca d’investimento, mentre i cugini della Lehman Brothers sono falliti. E’ di qualche mese fa un rapporto proprio della Goldman Sachs, intitolato “L’Italia va meglio di quanto si creda”, dove si riconosce che il nostro Paese è tra i meno indebitati, ha imprese private dai bilanci solidi, famiglie risparmiatrici e ricche, oltre che un sistema bancario in grado di resistere meglio di altri alle turbolenze finanziarie di questa crisi. Adesso gli anglosassoni scoprono che non solo nell’economia “reale “ ma anche nella finanza (pubblica e privata) l’Italia è molto meno debole di quanto immaginassero. La Royal Bank of Scotland con il suo “Financial fragility index” riconosce al nostro Paese una stabilità finanziaria quasi analoga a quella della Francia e solo di poco inferiore a quella della Germania, davanti a paesi come Belgio, Olanda, Austria, oltre che Spagna, Portogallo e Irlanda. L’indice di competitività elaborato da Onu e Wto, che si chiama TPI – Trade performance index, colloca il nostro Paese al secondo posto, dietro la Germania, nella classifica dei dieci paesi pi competitivi nel commercio mondiale. Primo nel tessile, nell’abbigliamento e nel cuoio, pelletteria e calzature. Secondo nella meccanica non elettronica, in quella elettrica e negli elettrodomestici, nella chimica, nei prodotti manufatti di base (prodotti in metallo, marmi, piastrelle in ceramica), nell’occhialeria, nell’oreficeria e nei prodotti miscellanei. Terzo negli alimentari trasformati (vino, olio, pasta, conserve, prodotti da forno, carni lavorate). Siamo al primo posto in Europa nella graduatoria dei prodotti Dop e Igp con 182 prodotti certificati, seguiti dalla Francia con 166, quindi dalla Spagna con 123. Inoltre, l’Italia è al quarto posto nella classifica dei principali paesi del mondo per entrate turistiche e il secondo in Europa, soltanto dietro la Spagna, per numero di pernottamenti di stranieri e il primo per numero di pernottamenti di turisti russi e cinesi, i nuovi “ricchi” del mondo. Primati che potrebbero essere ulteriormente consolidati qualora fossimo capaci finalmente di valorizzare pienamente la straordinaria ricchezza artistica, culturale, architettonica e naturale del nostro Paese. Basti pensare che l’Italia, con ben 44 siti, è il primo paese al mondo nella lista del patrimonio culturale mondiale dell’Unesco. Per superficie protetta da parchi nazionali siamo secondi in Europa e quarti per quella tutelata da parchi regionali. E’ un’Italia dove alle storiche e tuttora gloriose 4A si affiancano il turismo, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione che ci vedono occupare una posizione di leader europeo, la fotonica di cui rappresentiamo l’8% del mercato continentale, il biotech e in particolar modo le scienze della vita con una specializzazione nel farmaceutico che ci fa essere il terzo paese in Europa per numero di addetti e il quinto al mondo in una classifica dominata da Stati Uniti e Giappone, l’aerospaziale dove siamo settimi al mondo e quarti in Europa, con una posizione di rilievo mondiale nel settore degli elicotteri, nella produzione di sistemi radar e nel controllo del traffico aereo. In questo panorama un ruolo crescente è quello delle industrie culturali, il cui valore corrisponde al 6,3% del PIL italiano in media con quello europeo di poco superiore, ad esempio siamo il terzo produttore europeo nel cinema di animazione e su Roma sta nascendo un vero e proprio polo di livello internazionale. In questi anni si è sviluppata una nuova formula organizzativa di spettacoli ed eventi dal vivo attraverso la nascita di Festival tematici, fortemente legati ai territori, con oltre 1200 manifestazioni, 8000 professionisti coinvolti, oltre 400 milioni di euro di investimenti diretti e circa 10 milioni di spettatori. Si delineano cosù i tratti di un nuovo made in italy, di cui Symbola e Fondazione Edison hanno voluto con questa ricerca esplorarne le geografie. ITALIA diventa cosù l’acronimo di una lettura dell’economia nazionale che va dall’Industria al Turismo, dall’Agroalimentare al Localismo e sussidiarietà, dall’Innovazione, la tecnologia e l’ambiente all’Arte e cultura. Esiste una larga condivisione sui punti di debolezza dell’Italia a cominciare dall’enorme debito pubblico, dalla distanza che separa il nord dal sud, dagli scarsi investimenti pubblici nella ricerca, da un apparato burocratico spesso inconcludente, dall’abnorme presenza della illegalità in molti campi. Non altrettanto si pu» dire sui nostri punti di forza. La ricerca “ITALIA – geografie del nuovo made in italy” vuole essere un contributo in questa direzione aiutando a cogliere nelle caratteristiche del nostro sistema produttivo le radici di una scommessa sul futuro. Una scommessa che si nutre di valori, di coesione sociale e che vede nella sussidiarietà un formidabile fattore produttivo in grado di valorizzare i saperi e i talenti dei territori.
E’ un’Italia che non sta crollando nel corso dell’attuale gravissima crisi mondiale, come dimostrano le minori difficoltà delle nostre banche, la tenuta dei consumi delle famiglie italiane (in crescita dello 0,3% nel secondo trimestre 2009), il pi basso tasso di disoccupazione dell’Italia a giugno 2009 rispetto agli altri grandi Paesi UE e agli USA, nonché il minor calo dell’export dei nostri distretti industriali nel primo semestre 2009 rispetto all’export di Germania, Gran Bretagna e Francia. E’ un’Italia che potrebbe essere assieme alla Francia uno dei primi Paesi ad agganciare la ripresa, come prevedono da alcuni mesi gli indici anticipatori dell’OCSE. E’ un’Italia che ha un grande bisogno di essere messa in rete, raccontata, rappresentata per quello che è, di riconoscersi in un progetto comune per essere pi forte.

Marco Fortis – Vice Presidente Fondazione Edison
Ermete Realacci – Presidente Symbola

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