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“C’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo,
e questa è un’idea il cui momento è ormai giunto.”

Victor Hugo

Greenitaly 2015, sesta edizione del rapporto di Fondazione Symbola e Unioncamere sulla green economy italiana, conferma la forza sempre maggiore di questo paradigma economico nel nostro sistema produttivo. In termini di diffusione: sempre più imprese fanno scelte green. In termini di risultati: quelli, sorprendenti, nei bilanci, nell’occupazione e quelli nelle performance ambientali del Paese, che rendono l’Italia, nonostante i tanti problemi aperti, il leader europeo in alcuni campi dello sviluppo sostenibile. Un dato importante in vista della COP 21 di Parigi, il summit mondiale sui mutamenti climatici che ha l’obiettivo ambizioso ma irrinunciabile di ridurre ad un massimo due gradi l’aumento di temperatura sulla terra.

Si conferma anche un dato strutturale: per il made in Italy la green economy ha a che fare più con l’essere che col dover essere. Attiva caratteri presenti nel nostro dna, e li enfatizza rendendo le imprese più competitive e, in tempi di crisi come quelli che ci siamo appena lasciati alle spalle, più resilienti.

Contrariamente a quanto da molti sostenuto, le scelte orientate in senso ambientale non sono un peso ma una straordinaria chiave per affrontare la crisi, in particolare in Italia. Del resto, come diceva Albert Einstein “non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato”. Nuovi consumi e stili di vita (non solo nei paesi occidentali) stanno accelerando la trasformazione del nostro apparato produttivo.
Temi come sostenibilità, innovazione, qualità, design, tradizione e saperi sono centrali nelle strategie di molte imprese: la green economy oggi, nella sua accezione più ampia, sta dentro la catena del valore delle aziende e costituisce un fondamentale fattore di competitività.

Sono 372.000 le imprese italiane dell’industria e dei servizi con dipendenti che hanno investito nel periodo 2008-2014, o prevedono di farlo entro la fine del 2015, in prodotti e tecnologie green. In pratica una su quattro, il 24,5% dell’intera imprenditoria extra-agricola. E nel manifatturiero sono una su tre (32%): la green economy è, per un pezzo considerevole delle nostre imprese, un’occasione colta. Solo quest’anno, anche sulla spinta dei primi segni tangibili di ripresa, 120 mila aziende hanno investito, o intendono farlo entro dicembre, sulla sostenibilità e l’efficienza: 31.600 imprese in più dell’anno scorso (+36%).
Non è difficile capire le ragioni di queste scelte. Le aziende di questa Greenitaly, dove il made in Italy assume in sé e si arricchisce con la green economy, grazie anche agli eco-investimenti, hanno un dinamismo sui mercati esteri nettamente superiore al resto del sistema produttivo italiano: esportano, infatti, nel 18,9% dei casi, a fronte del 10,7% di quelle che non investono. Nella manifattura il 43,4% contro il 25,5%. E sono più presenti nei mercati extra-europei: India, Cina, Sud Africa e Arabia Saudita.

Queste imprese innovano di più delle altre: il 21,9% ha sviluppato nuovi prodotti o servizi, contro il 9,9% delle non investitrici (il doppio). E nell’edilizia (13,5% contro 5,5%) e nel manifatturiero (30,7% contro 16,7%) lo scostamento è addirittura più ampio.
Sospinto da export e innovazione, il fatturato è aumentato, fra 2013 e 2014, nel 19,6% delle imprese che investono green, nel 13,4% delle altre. In particolare nel manifatturiero: 27,4% contro il 19,9%.

Fatturato ma anche occupazione. Queste imprese, infatti, che sono poco meno di un quarto del totale, assumeranno quest’anno più di 314.000 dipendenti, il 43,6% del totale delle assunzioni previste nell’industria e nei servizi per l’anno in corso. Nel manifatturiero si sfiora il 60%.

E proprio nel creare lavoro la sostenibilità è un driver importante, sia tra le imprese eco-investitrici che tra le altre. ll nostro sistema produttivo guida già la ‘riconversione verde’ dell’occupazione europea: dalla fine del 2014, il 51% delle piccole e medie imprese italiane ha almeno un green job, più che nel Regno Unito (37%), Francia (32%) e Germania (29%).

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