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Non conosciamo mai la nostra altezza / finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura.

Emily Dickinson

In questi primi anni del millennio in cui le fake news (vere o presunte) sono diventate uno dei temi caldi del dibattito pubblico, anche l’Italia paga il suo prezzo, soprattutto a causa della scarsa consapevolezza e della mancanza di orgoglio. Le buone notizie sul Paese, e in particolare i risultati raggiunti nello scenario mondiale, non sono mai stati molto conosciuti in patria. Ma oggi a questa scarsa consapevolezza si aggiunge una altrettanto scarsa fiducia nel Paese che alimenta i dubbi su quei risultati. Ce lo dice un’indagine realizzata da Ipsos per questo rapporto. Facciamo qualche esempio. L’Italia è tra i primi 10 Paesi al mondo per investimenti in ricerca e sviluppo: solo il 13% degli italiani ne è consapevole, e addirittura quasi uno su due (45%) non ritiene credibile questa notizia, la ritiene insomma una fake news. Siamo il primo Paese europeo per riciclo di rifiuti col 76,9% del totale di quelli prodotti: ma solo un italiano su 10 lo sa e addirittura il 51% ritiene questa notizia non credibile.

Al tema della consapevolezza si aggiunge insomma quello della fiducia.
Eppure all’estero cresce la domanda di Italia. Come dimostra un’indagine di Google, anch’essa realizzata per questo report. Il numero di ricerche su Google legate al made in Italy e alle parole chiave ad esso riconducibili – un fondamentale indicatore della notorietà e del desiderio dei prodotti italiani nel mondo – è cresciuto del 56% tra il 2015 e il 2018. Quattro anni fa, un’analoga indagine aveva rilevato un aumento importante (+22%) ma non così elevato. E questa è solo la media mondiale: ci sono Paesi come Brasile, India, Portogallo e Stati Uniti per i quali il traffico di ricerche legate al made in Italy registra una crescita ancor più marcata. Altra conferma è il fatto che, su scala mondiale, dopo inglese, spagnolo e cinese, l’italiano è la quarta lingua più studiata, prima del francese.

L’Italia è, in molti campi e nonostante la percezione comune, una superpotenza: della manifattura (siamo uno dei primi 5 Paesi al mondo per surplus commerciale con l’estero), dell’economia circolare (campione europeo nel riciclo dei rifiuti), dell’agroalimentare (primi in Europa per valore aggiunto, tra i leader mondiali nelle coltivazioni biologiche), della creatività (primo tra i grandi Paesi Ue per numero di imprese del design), del turismo (secondo Paese dell’Ue per pernottamenti di turisti extraeuropei). La consapevolezza dei nostri punti di forza e la fiducia nelle nostre energie migliori sono il primo passo per affrontare e risolvere i problemi del Paese. Non solo il debito pubblico ma anche le disuguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia inefficace e spesso soffocante. Da lì – dalla consapevolezza e dai talenti, dall’identità e dall’orgoglio – si deve partire per contrastare i tanti problemi ereditati e affrontare quelli che verranno.

I.T.A.L.I.A., rapporto biennale arrivato alla sua quarta edizione, realizzato da Fondazione Symbola, Unioncamere e Fondazione Edison, nasce per guardare negli occhi l’Italia e raccontarne i tanti punti di forza. Usando il nome del nostro
Paese come acronimo del nuovo made in Italy – dall’Industria al Turismo, dall’Agroalimentare al Localismo, dall’Innovazione all’Arte e alla cultura – il report propone una foto di insieme dei tanti talenti del nostro Paese e degli straordinari risultati che, nonostante tutto, essi hanno caparbiamente ottenuto.

Vediamone alcuni, precisando da subito che, in tutti gli ambiti osservati, la cifra dell’Italia è la qualità, l’innovazione che prende il via dalle tradizioni, i territori e le comunità che, insieme alla cura del capitale umano, della cultura e della bellezza, sono parte attiva nella creazione di valore, anche economico. In una parola la soft economy: “un’economia dolce e immateriale, basata sulla conoscenza, sulla valorizzazione dell’identità delle comunità e dei territori e sul rispetto dell’ambiente”, come la definisce il dizionario Treccani dei neologismi.

Partiamo dalla ricerca, ambito in cui il nostro Paese non gode, nella pubblica opinione, di grande credito. Nonostante sia necessario investire di più, l’Italia è tra i primi dieci Paesi al mondo per investimenti in ricerca e sviluppo. Usando il numero di pubblicazioni scientifiche come proxy dell’intera produzione scientifica di un sistema di ricerca, l’Italia, pur non registrando valori assoluti di primo ordine, mostra una buona vitalità, testimoniata dalla crescita dell’8,3% (2000-2016, ultimo dato disponibile), a fronte di una media mondiale del 5,7%. Insieme a Spagna e Cina, ci collochiamo tra coloro che hanno visto aumentare la propria quota di ricerche sul totale mondiale. Ma il dato più importante, come segnalato, è la qualità. Se le nostre ricerche non sono molto numerose, sono però di valore, come dimostra il numero di citazioni medie di quelle made in Italy. L’Italia, partendo nel 2000 da un valore piuttosto basso (1,01 citazioni medie, ultima tra i grandi Paesi Ue), ha mostrato una crescita fino a 1,35 citazioni, che la fa salire al secondo posto al Mondo alle spalle solo del Regno Unito, e davanti anche a Cina, Usa, Giappone, Germania.

Dalla ricerca all’innovazione delle imprese. Nel panorama comunitario, l’Italia si conferma seconda per numero di imprese innovatrici (38.361) dietro alla sola Germania (41.793). Secondo la International Federation of Robotics, la nostra penisola detiene un importante sesto posto a livello mondiale per stock complessivo di robot installati (64.356 unità nel 2017, ultimo anno disponibile), preceduta da Cina, Giappone, Corea del Sud, Stati Uniti e Germania. In questo campo abbiamo anche un primato di natura culturale: la roboetica, disciplina che studia gli aspetti etici, sociali, umanitari e ecologici della robotica, prende le mosse dal “Primo Simposio internazionale sulla roboetica”, organizzato nel 2004 a Sanremo dalla Scuola di Robotica. Prodotti nuovi, più sostenibili, più belli pratici e innovativi arrivano spesso dal design, che è un marchio di fabbrica del made in Italy. Delle oltre 192.446 imprese europee di design, infatti, quasi una su sei parla italiano: 30.828 aziende che collocano l’Italia davanti agli altri grandi Paesi europei – Francia (27.689), Germania (26.307), Regno Unito (22.731) e Spagna (5.543).

L’innovazione delle nostre imprese, spesso difficilmente misurabile, può essere valutata dai loro risultati. Come quelli cha hanno reso l’Italia protagonista europea dell’economia circolare. Con 307 tonnellate di materia prima per ogni milione di euro prodotto dalle nostre imprese, siamo secondi tra i gradi Paesi Ue per uso efficiente di materia, dietro al Regno Unito (236 tonnellate), favorito da un’economia fortemente terziarizzata e orientata ai servizi finanziari. Alle spalle dell’Italia, troviamo la Francia (326), la Spagna (360) e la Germania (408).

L’Italia, con il 76,9%, è il paese europeo con la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti, più del doppio della media comunitaria (36%). Con il 18,5% di materia seconda sui consumi totali di materia delle imprese, siamo anche primi tra i grandi Paesi europei per tasso di circolarità dell’economia. Un riuso di materia che comporta un risparmio pari a 21 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e a 58 milioni di tonnellate di CO2. A questi risultati si aggiunge un altro primato europeo legato alla dematerializzazione dell’economia: ogni kg di risorsa consumata, genera 4 euro di Pil, contro una media Ue di 2,24 euro e un dato della Germania di 2,3 euro. Tutti dati che parlano di sostenibilità ambientale ma anche di efficienza economica, produttiva e di innovazione. Un quadro destinato a migliorare ulteriormente, considerando le oltre 345.000 imprese italiane dell’industria e dei servizi che hanno investito nel periodo 2014-2018 in prodotti e tecnologie green.

Queste caratteristiche, insieme alla flessibilità e alla vocazione sartoriale delle imprese (saper modificare i propri prodotti e servizi sulla base delle esigenze della clientela) e alla grande e radicata capacità produttiva, fanno dell’Italia uno dei protagonisti europei e mondiali della manifattura. Con 106,9 miliardi di dollari di surplus, infatti, siamo tra i primi 5 Paesi al Mondo per attivo manifatturiero, dietro a Cina, Germania, Corea del Sud e Giappone.

Questo grazie ad un tessuto produttivo fatto soprattutto di piccole e medie imprese. Il nostro Paese conta il più elevato numero di PMI manifatturiere esportatrici nell’area Ocse. Analizzando in maggior dettaglio questo punto e limitandoci al quadro europeo, le PMI italiane sono prime per export (posizionandosi davanti anche alle grandi imprese) nel tessile,
nell’abbigliamento, nelle pelli-calzature e nei mobili; seconde nei prodotti a base di minerali non metalliferi, nei prodotti in metallo e nelle macchine e apparecchi meccanici; terze nei prodotti in gomma e plastica; quarte nei metalli, negli apparecchi elettrici e negli altri settori manifatturieri. Le nostre PMI hanno dunque un ruolo evidentissimo anche in ambiti diversi da quelli tradizionali della moda e dei mobili, in cui l’Italia è leader.

L’indice delle eccellenze competitive nel commercio internazionale sviluppato dalla Fondazione Edison – che rileva il numero di prodotti, su un totale di 5.206, in cui ciascun Paese è primo, secondo o terzo al mondo per surplus commerciale con l’estero – ci dice che nel 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili statistiche complete) sono 922 i prodotti in cui l’Italia si trova ai vertici mondiali per surplus commerciale (prima in 240 prodotti, seconda in 380, terza in 302).

Dall’industria all’agricoltura. Quella italiana, con 32,2 miliardi, si colloca davanti a tutti i Paesi europei per valore aggiunto generato, quasi un quinto di quello dell’intero sistema agricolo dell’Unione europea. A fronte di un’agricoltura che è la meno sussidiata tra quelle dei grandi Paesi Ue: i contributi alla produzione, sia nazionali sia europei, in Italia, ammontano a 4,9 miliardi; 7,8 miliardi in Francia, 6,8 miliardi in Germania, 5,8 in Spagna. La nostra agricoltura e il nostro sistema agroalimentare sono tra i più competitivi al mondo: sempre secondo l’indice delle eccellenze competitive nel commercio internazionale della Fondazione Edison, nel 2017, su un totale di 798 prodotti agroalimentari mondiali, l’Italia sale sul podio in 80 casi, ovvero per un prodotto ogni dieci. Il nostro Paese è leader nel mercato mondiale del vino, con circa un quinto in termini di produzione, esportazioni in volume ed esportazioni in valore. Perché, ancora una volta, la nostra cifra è la qualità, come testimonia il maggior numero di riconoscimenti dell’Unione europea per le specialità agroalimentari, e in particolar modo per i vini. Più di un prodotto certificato su 4 è italiano (una specialità alimentare su 5 e un vino su 3). I prodotti alimentari italiani a denominazione di origine e a indicazione geografica sono 299, di cui 167 DOP e 130 IGP, a cui si aggiungono anche 2 STG. Nel comparto del vino, l’Italia conta ben 526 riconoscimenti, di cui 408 DOP e 118 IGT.

Anche nell’agricoltura, è la sostenibilità ambientale a guidare i processi di evoluzione qualitativa del nostro Paese, secondo in Europa e sesto in tutto il mondo per superficie dedicata all’agricoltura biologica. D’altronde, non abbiamo rivali in Europa per numero di produttori biologici: 67mila, più del doppio dei tedeschi (30mila), quasi il doppio degli spagnoli (38mila) e 10mila in più della Francia (37mila). In termini di sicurezza alimentare poi ci collochiamo in testa, con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre i limiti di legge (1,9%); meno della metà della media Ue (3,8%) e della gran parte dei grandi Paesi europei (3,2% della Spagna, 3,8% della Germania, 4,3% della Gran Bretagna e 6,4% della Francia). Qualità, sostenibilità e competitività, come emerge dal quadro statistico appena riportato, sempre più spesso vanno a braccetto, e il nostro sistema produttivo sembra averlo compreso prima di altri.

Il turismo poi. Siamo un grande hub turistico: con i nostri 5 milioni di posti letto totali in tutti gli esercizi ricettivi, siamo secondi alle spalle della Francia, che ne ha 5,1 milioni. L’offerta turistica francese però si basa prevalentemente sulle aree campeggio (2,8 milioni), lasciando all’Italia la posizione di leadership nell’Unione europea per quanto riguarda i posti letto nelle strutture alberghiere: 2,3 milioni, il 16,3% dell’intera offerta alberghiera dell’Ue. Una vocazione all’ospitalità confermata anche quest’anno dai turisti extraeuropei: nel 2017 l’Italia rappresenta il secondo Paese dell’Unione europea per numero di pernottamenti di turisti extra UE, con 65,2 milioni di notti (+8,5% tendenziale), dietro al Regno Unito che ne conta 130 milioni (anno 2016), ma saldamente davanti a Spagna (52 milioni) e Francia (41,5 milioni). Questi numeri sono legati alla bellezza dei nostri paesaggi, alla vocazione all’accoglienza (fatta anche di enogastronomia) e al nostro invidiabile patrimonio culturale. L’Italia è il primo Paese per numero di siti classificati dall’Unesco nella lista del patrimonio culturale mondiale: 54, davanti alla Cina (53), alla Spagna (47), alla Francia (44) e alla Germania (44). Sono 4.889 i musei e gli istituti similari, pubblici e privati, aperti al pubblico nel 2017: di questi, 4.026 sono musei, gallerie o collezioni, 293 aree e parchi archeologici e 570 monumenti e complessi monumentali. Una vocazione alla cultura che si fa economia e che contamina anche altri settori, come la manifattura. Le imprese italiane del Sistema Produttivo Culturale e Creativo italiano sono 416.080, corrispondenti a una quota del 6,8% sul totale delle imprese. A queste, unitamente a una componente di origine pubblica e non-profit, si deve il 6,1% del valore aggiunto italiano, oltre 95,8 miliardi di euro, e 1,55 milioni di occupati (6,1% del totale). Ma la cultura, come abbiamo detto, ha effetti anche sul contesto, grazie ad un effetto moltiplicatore, pari a 1,8, sul resto dell’economia: per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori. I 95,8 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 169,6 per arrivare a 265,4 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 16,9% del valore aggiunto nazionale, col turismo come primo beneficiario di questo effetto volano. Un effetto competitivo confermato anche dal fatto che le aree geografiche dove maggiore è il fatturato della cultura sono anche quelle dove è forte la vocazione manifatturiera.
Quella appena tratteggiata, e descritta più nel dettaglio nelle pagine che seguono, è un’Italia già in campo. Un Paese la cui competitività risiede anche nella contaminazione tra valore economico e valore sociale, nella relazionalità, nelle dinamiche partecipative e nella cultura della cittadinanza, nel numero sempre maggiore di imprese sociali, in cui alla lunga tradizione della cooperazione si aggiungono oggi nuovi soggetti, come le benefit corporation e le startup a vocazione sociale. La stessa chiave dell’economia civile tende ad allargare la sua influenza, e la crescente sensibilità dei cittadini attraverso il “voto con il portafoglio” spinge dal basso verso un’economia più a misura d’uomo.

Gli straordinari risultati accennati sono ottenuti grazie a persone, imprese e associazioni che coltivano la tradizione senza aver paura di innovare, intrecciando creatività, cultura, ricerca, sostenibilità. Che contribuiscono a fare dell’Italia un Paese che può diventare protagonista del futuro e delle sfide più ambiziose, a partire dalla crisi climatica. Quest’Italia che fa l’Italia deve credere in sé stessa e deve scommettere sui suoi tanti talenti. E deve dare ascolto alla massima tramandata in uno dei testi sacri dell’ebraismo, il Talmud: “Non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo”.

Marco Fortis Vice Presidente Fondazione Edison
Ermete Realacci Presidente Fondazione Symbola
Carlo Sangalli Presidente Unioncamere

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